Il diritto al lavoro per tutti è sempre stato considerato un punto di riferimento irrinunciabile per chi ha combattuto contro ogni forma di discriminazione. Di quel “per tutti” sono stati parte fondamentale coloro i quali, per ragioni fisiche o psichiche, avevano meno chance da far valere sul mercato del lavoro.
Si ha oggi la sensazione (invero qualcosa di più… ) che il diritto ad avere un lavoro, quali che siano le condizioni psico-fisiche della persona, non sia più considerato un requisito irrinunciabile, quel valore in sé che non permette di parlare di dignità della persona se ad essa non viene garantita questa fondamentale opportunità.
A fronte di una cospicua, e spesso ridondante, produzione legislativa, in materia di inserimento lavorativo (penso alle norme contenute nella legge 68/99, 381/91, nell’art.14 del decr.leg.276/2003, fino ad arrivare al più recente, discusso e discutibile, Jobs Act), è possibile affermare che la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dallo Stato italiano con la Legge 18/2009) somiglia più a una dichiarazione di intenti che a una prassi vera e propria.
Un diritto primario come il lavoro stenta, così, ad affermarsi, con la conseguenza che la persona con disabilità e la sua famiglia si trovano ad affrontare con grande difficoltà ogni prospettiva futura.
Tale realtà è tanto più drammatica se pensiamo a chi soffre di una complessa disabilità psichica come quella legata al Disturbo dello Spetto Autistico, che necessita di un accompagnamento particolare per rispondere alle specifiche esigenze che la caratterizzano.
Secondo i più recenti studi Isfol, se è vero che il tasso di disoccupazione dei disabili è 4 volte più alto dei normodotati, nell’autismo emerge una situazione ancora più critica, giacché soltanto una persona su dieci ha oggi un impiego.
L’autismo, com’è stato appena ricordato, è una “disabilità complessa”, e ciò per una serie di ragioni. Le persone autistiche, per esempio, hanno una peculiare difficoltà a stabilire relazioni con i coetanei e per loro è arduo comprendere quelle regole del comportamento sociale, che la maggior parte delle persone impara durante l’infanzia. Hanno specifico bisogno di ricevere indicazioni chiare; di routine, di una supervisione stretta, perché senza possono smettere di funzionare.
Dinanzi a questo quadro composito quale occupazione lavorativa è ragionevolmente prospettabile per un soggetto autistico? Io credo che per rispondere a questa domanda a nulla servano le semplificazioni e le non infrequenti forzature, anche di ordine ideologico, che frequentemente vengono messe in campo. Ciò perché l’integrazione sociale delle persone autistiche non può non passare primariamente dalla modifica culturale e ambientale che il mondo neurotipico è chiamato ad attuare, per favorirne l’accoglienza e lo sviluppo.
L’attuale organizzazione sociale e lavorativa è lungi, purtroppo, dall’aver maturato questa consapevolezza e “quasi tutti i programmi lavorativi, destinati a disabili autistici, sono orientati alla ricerca di strumenti che al massimo possono agevolare o aiutare le persone “diverse” ad adattarsi al mondo “normale”, senza che quest’ultimo ritenga minimamente di attuare dei cambiamenti su di sé”(Cfr AUTISMO OGGI, 2010).
Tale visione ha orientato gli attuali tentativi di dare alle persone con autismo opportunità di lavoro. Per averne una conferma è sufficiente guardare alle tipologie di inserimento lavorativo affidate oggi a laboratori protetti o al collocamento mirato. I primi sono, fondamentalmente, “contenitori” in cui non viene svolto un vero e proprio lavoro: si tratta per lo più di spazi dove si realizzano semplici attività che hanno come finalità principale il “tenere occupati” gli ospiti.
Se guardiamo invece al collocamento mirato, regolato dalla legge 68/99, solo qualche inguaribile ottimista potrà negare che esso si è rivelato un quasi totale fallimento per le persone con disabilità mentale, e più in particolare per quelle affette da autismo.
E’ dunque (anche) osservando queste realtà che diventa possibile affermare che il problema, prima ancora che di natura politica, possiede una spiccata valenza culturale. Quali datori di lavoro sanno come comportarsi di fronte alle peculiarità della comunicazione autistica? Come si rapportano alla difficoltà di adattamento di queste persone a un contesto neurotipico e al mondo delle relazioni? Alla difficoltà nel comprendere le regole? Alla necessità di compiere rituali e dedicarsi a stereotipie a volte irrefrenabili? E quale ambiente lavorativo può davvero abbattere tutte quelle fonti di stimoli sensoriali per loro così insopportabili (luci fluorescenti, rumori, imprevedibilità, ecc)?
Pongo queste domande perché, com’è stato acutamente osservato, gli studi sul funzionamento neuropsicologico delle persone con autismo hanno dimostrato che, “dal momento dello screening diagnostico all’età adulta, le persone autistiche hanno bisogno di approcci che non facciano violenza al loro modo di funzionare” (Cfr Cinzia Raffin: “Quale lavoro per le persone con autismo”).
Siamo davanti a persone che hanno si bisogno di imparare, ma attraverso mezzi e modalità che siano conformi ai “loro” stili cognitivi, perché non possono (non è che non vogliano) rispondere ai “normali” sistemi educativi e occupazionali.
Stanti queste premesse è veramente difficile continuare a pensare che gli sforzi debbano andare unilateralmente nella direzione della “normalizzazione” della persona autistica.
Va rovesciata la piramide: dev’essere abbattuta la mentalità che fonda le sue radici nella credenza che se i diversi non possono vivere in un mondo “normale”, non rimane che assisterli caritatevolmente in famiglia o relegarli in strutture diurne o residenziali di tipo assistenziale (dove, come ben sappiamo, l’obiettivo non è sicuramente la maturazione e la crescita dell’individuo ma la sorveglianza e il contenimento).
Deve conseguentemente essere incentivata la creazione di modelli diversi da quelli proposti finora, per offrire opportunità che soddisfino i bisogni di ciascuno nel rispetto della diversità. Solo a queste condizioni le persone autistiche potranno trovare sbocchi lavorativi conformi al loro essere: dalle nuove tecnologie dell’informazione (che permettono una più facile comunicazione con altri lavoratori) all’informatica; all’agricoltura sociale; ai comparti in cui viene valorizzata la loro abilità nei lavori di precisione; all’artigianato ecc.
Occorre progettare e garantire un servizio di orientamento professionale che possa aiutare i soggetti autistici a rispondere alla sfida imposta dal progresso tecnologico e dai mutamenti sociali. E’ fondamentale promuovere un’intensa campagna di informazione nelle scuole, nei centri di formazione e nelle aziende, perché la diffidenza – e talvolta lo stigma – che circondano l’autismo, si vincono solo colmando il deficit di conoscenza che storicamente accompagna questa disabilità. L’esperienza dimostra che, se selezionato e indirizzato verso la mansione corretta, il lavoratore autistico non è una “quota di legge” da coprire ma forza lavoro in grado di produrre e contribuire al successo dell’azienda.
Ciò deve valere per ogni autistico (per esser chiari: non solo per quelli cosiddetti ad alto funzionamento…), nel rispetto delle attitudini e delle capacità di ciascuno. Tutti, insomma, e non “tutti meno tanti”, devono poter sperimentare, in qualche modo, questo diritto poiché le leggi – sembrerà banale ricordarlo – non si applicano solo a favore di pochi.
Da qui la necessità di non fermarsi agli spot, magari non disinteressati, di medie e grandi aziende, ma di allargare la platea anche, e soprattutto, alle microimprese che operano sul territorio. In questo senso diventa importante istituire per le persone autistiche adulte, così come è stato fatto per altri tipi di disabilità, la figura del “mediatore lavorativo” (tutor): un profilo professionale in grado di accompagnarne e monitorarne l’inserimento nel mondo del lavoro.
Sono già stati sperimentati importanti progetti che, tenuto conto delle specificità territoriali, possono rappresentare un primo interessante modello. Cito, solo a titolo di esempio, quello denominato Start Autismo Abruzzo (Sistema Territoriale per l’Autonomia e la Realizzazione dei Talenti di persone con Autismo), che richiama le Linee Guida regionali e utilizza, tra l’altro, per la valutazione professionale, interviste e il protocollo TTAP (Teacch Transition Assessment Profile).
Va da sé che i progetti di accompagnamento all’inserimento socio-lavorativo dei soggetti autistici devono essere supportati da organismi territoriali di coordinamento e monitoraggio, che si interfaccino con i Centri per l’impiego, gli Enti, le ASL, i Servizi Sociali e Territoriali.
Sta a ciascuno di noi battersi ogni giorno per il pieno riconoscimento dei fondamenti costituzionali di eguaglianza, di realizzazione della persona umana e rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo di ogni essere umano.
E’ questa la vera cifra di una sfida che ha al centro non elemosine o regalie ma un diritto fondamentale troppo spesso negato. Nessuno lo dimentichi!
Gianfranco Vitale www.facebook.com/autismoIN
Si ringraziano:
http://www.startautismo.it/
http://www.fondazioneares.com
http://www.spazioasperger.it
Cinzia Raffin, presidente e direttrice scientifica della Fondazione Bambini e Autismo, Pordenone (http://www.bambinieautismo.org/)
Antonella Foglia, presidente di Autismo Marche
http://www.isfol.it/