Aveva 10 anni, Sofia, quando prese tra le mani per la prima volta il pallone da basket. «Erano mesi che provava, ma quando le lanciavamo la palla girava i dorsi e la lasciava cadere a terra». Autismo. Sofia non comunicava col mondo, caso difficile. Poi accadde qualcosa. «Non so che cosa avesse di diverso quel passaggio rispetto ad altri, fatto sta che Sofia scoppiò a piangere. Allora mi avvicinai, mi misi in ginocchio vicino a lei e cominciai a far scivolare il pallone lungo le gambe. Riuscii a farla sorridere. A quel punto si alzò in piedi, prese un tavolo e lo piazzò sotto il tabellone. Ci salì sopra, si fece dare il pallone e fece canestro. Poi mi diede la mano, e prima di andarsene mi disse “ciao”. Era la prima parola che diceva in vita sua. Un’emozione indimenticabile. In quel momento ho pensato: ho fatto la scelta giusta».
E che scelta. Sarebbe stato facile, per Marco Calamai, fiorentino, classe 1951, continuare ad allenare in serie A. Una carriera tra Ferrara, Pavia, Reyer Venezia, Firenze, Fortitudo Bologna e Pallacanestro Livorno, più di 300 presenze in panchina, dignitosi contratti e buoni stipendi. Un’avventura aperta. E invece. «E invece sentivo che mi mancava qualcosa. Non insegnavo più, quel basket cominciava ad andarmi stretto, i giocatori ti ascoltavano meno, ascoltavano solo se stessi e i procuratori. Così ho detto basta». Aveva altro da fare, altro da costruire, Marco Calamai. Se ne accorse quando sul suo percorso incontrò per caso questi ragazzi: disabili, down, autistici, caratteriali, iperattivi. La scintilla scoccò il giorno dell’incontro con Emma Lamacchia, responsabile dell’associazione La Lucciola: «Vidi questi ragazzi, praticavano lo sport come terapia, ma le uniche discipline erano nuoto ed equitazione, attività individuali. Proposi: perché non fargli provare uno sport di gruppo?».
All’inizio titubante, la dottoressa Lamacchia accettòuna prova. E Calamai fece quello che sapeva fare meglio: «Cercai di insegnare loro il basket. Cominciai a modo mio: urlando, incoraggiando, correndo e saltando, io sono solo così». Mise insieme normodotati e disabili, un progetto rivoluzionario: «Ma io non ho inventato nulla, ho fatto solo da mediatore, ascoltando le esigenze fisiche di quei ragazzi. La grande idea fu di non farli giocare nelle federazioni di sport per disabili, ma nelle federazioni “normali”. Lo sport non doveva essere un ghetto per loro».
Era il 1995: 17 anni dopo, in Italia ci sono 25 centri che adottano il «metodo Calamai», 750 ragazzi con disabilità mentale che si avvicinano alla vita giocando a pallacanestro. E un camp in Sardegna, alla sua prima edizione, dove 25 atleti normodotati e 25 atleti disabili si allenano e imparano a giocare a basket. Alla pari, senza differenze. Un momento di crescita, per gli uni e per gli altri. «Lo chiamano metodo ma è un non metodo. Due concetti base e tre regole. I concetti sono: 1) grande competenza nel basket, 2) capacità e voglia di scambiarsi con loro. Le regole sono ancora più semplici: 1) dammi la palla e se me la rendi potrai giocare, il passaggio come dialogo; 2) ognuno di noi ha più qualità che limiti, basta vedere i primi piuttosto che i secondi; 3) quando giochi, ti devi divertire. Così ho sfidato l’ortodossia». E così ha vinto.
Chiedere ai genitori di Junior, ragazzo chiuso e incapace di esprimersi in pubblico. Al primo allenamento, Calamai lo incalza: corri, muoviti, dai. La madre a bordo campo guarda allibita e pensa: lo riporto subito a casa. Quando Junior finisce l’allenamento glielo dice, tu qui non ci torni più, quello urla troppo. E il ragazzo le risponde: «Mamma, non hai capito niente, è solo per far rispettare le regole». Junior è ancora oggi uno dei ragazzi di Calamai.
L’allenatore che lanciò Gianmarco Pozzecco in serie A oggi si emoziona quando uno dei suoi ragazzi segna il canestro decisivo in un campionato normale. «Pozzecco, un piccolo play in un mondo di giganti, è l’esempio di quanto il basket sia democratico: equipara le differenze. È questo che insegno oggi ai miei ragazzi. E so che sono di parte, ma il basket è lo sport più bello del mondo, lo sport che tende al cielo. È un grande messaggio». Come quello dei ragazzi di Calamai, l’allenatore più vincente del basket italiano.