Non basta studiare quali capacità sono alterate nei soggetti autistici, serve anche comprendere come ciascuna funzione interagisce con le altre. L’attenzione condivisa, infatti, nei soggetti normali aiuta la mimesi facciale (si tratta di due capacità base per l’interazione sociale umana), mentre negli autistici avviene il contrario. Lo suggerisce un nuovo studio pubblicato su Autism Research.
Attenzione condivisa e mimesi facciale.
L’empatia ( ovvero la capacita di immedesimarsi e comprendere le emozioni degli altri) ha molte componenti, alcune sofisticate che coinvolgono processi di pensiero complessi, altre tanto basilari quanto essenziali. Fra queste ultime ci sono l’attenzione condivisa – la capacità che due, o più, individui hanno di porre attenzione allo stesso oggetto, e che viene avviata dal contatto visivo tra due persone – e la mimesi facciale – la tendenza a riprodurre sul proprio viso le espressioni emotive degli altri.
Le persone affette da autismo hanno difficoltà con entrambe, ma secondo una ricerca pubblicata su Autism Research, il segreto sembra risiedere nell’interazione fra queste due funzioni. «L’empatia è una caratteristica umana fondamentale nelle relazioni sociali. – spiega Sebastian Korb, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, fra gli autori della ricerca (svolta in collaborazione con l’Università di Reading, Regno Unito, e coordinata dal Bhismadev Chakrabarti, e altri istituti di ricerca europei) – Secondo le teorie dell’embodied cognition(cognizione incorporata) per meglio capire l’espressione che vediamo sul viso di chi ci sta davanti riproduciamo la stessa espressione sul nostro viso».
Questo non significa che per forza quando vediamo qualcuno sorridere dobbiamo sorridere a nostra volta, anche se a volte succede davvero. Più spesso, però, i muscoli facciali coinvolti nel sorriso si attivano, ma in maniera talmente lieve che il movimento non è visibile a occhio nudo.
Negli autistici l’attenzione condivisa ‘disturba’ in qualche modo la mimesi facciale.
La nota difficoltà delle persone autistiche nell’interpretare le emozioni degli altri potrebbe avere le sue radici proprio in una ridotta mimesi facciale, poiché molti studi hanno dimostrato che in questi soggetti questa funzione è deficitaria. Altri studi hanno mostrato che anche l’attenzione condivisa è intaccata negli autistici. Anche questa funzione ha un’enorme rilevanza nell’interazione sociale.
Ciò nonostante, i deficit di mimesi facciale e di attenzione condivisa nell’autismo rimangono dibattuti e poco conosciuti. Per questo, «noi crediamo che si debba porre molta attenzione all’interazione fra queste due capacità. – spiega Korb – Nei nostri esperimenti infatti abbiamo osservato che nelle persone con tratti autistici più marcati, l’attenzione condivisa ‘disturbava’ la mimesi facciale, mentre nei soggetti normali la agevolava».
Una questione di interazione.
Va sottolineato che i 62 soggetti che hanno partecipato all’esperimento non erano persone con una diagnosi di autismo. Invece, i ricercatori hanno utilizzato un questionario per misurare la tendenza all’autismo in persone normali. Infatti, è stato dimostrato che in ogni individuo si possono trovare tratti più o meno autistici, che però nella maggior parte dei casi sono lievi e quindi non portano a una diagnosi.
L’esperimento.
Durante gli esperimenti i soggetti interagivano con un «avatar», una faccia tridimensionale interattiva (che adattava il suo comportamento a quello del soggetto). All’inizio di ogni prova l’avatar rimaneva a occhi bassi, ma non appena lo sguardo del soggetto (monitorato con un sistema di eye-tracking) andava verso la zona degli occhi dell’avatar il suo sguardo si alzava e poteva incontrare lo sguardo del soggetto (condizione con attenzione condivisa) o muovere gli occhi verso l’alto (condizione senza attenzione condivisa). Successivamente, lo sguardo dell’avatar si muoveva di lato verso un oggetto (scelto fra due visibili), mentre il sistema di monitoraggio registrava se lo sguardo del soggetto seguiva quello dell’avatar. A quel punto l’avatar poteva sorridere o assumere un’espressione di disgusto.
Durante la prova, la mimesi facciale del soggetto veniva misurata con l’elettromiografia facciale (un metodo per registrare l’attivazione dei muscoli). «Quello che abbiamo osservato è che nelle condizioni con attenzione congiunta e dove l’avatar sorrideva, nei soggetti con tratti autistici più marcati i muscoli del sorriso si attivavano poco, mentre in quelli poco o per niente autistici la risposta espressiva era molto più amplificata. – spiega Korb – Gli individui senza autismo tendono ad avere una risposta empatica (e una mimesi facciale) più forte con le persone con hanno avuto contatto visivo e stabilito un’attenzione condivisa.
Ma se ci sono tendenze autistiche il contatto visivo al contrario può disturbare e diminuire la mimesi facciale». «Per comprendere sia i meccanismi base di una buona interazione sociale, che i processi alterati alla base dell’autismo, è dunque importante non solo osservare quali funzioni sono danneggiate, ma anche come queste lavorino in concerto», conclude Korb.
Via Pressin